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by Ilenia Iengo, Paola Imperatore and Emanuele Leonardi

Una nuova rubrica bilingue in Italiano e Inglese ci invita a seguire e comprendere una lunga stagione di mobilitazioni che sta irrompendo in Italia dagli anni ’70 ad oggi, costruendo ponti tra saperi e pratiche dell’ecologia politica.


Partendo dai territori in lotta contro le nocività, estrattivismo ed ingiustizie ambientali che hanno segnato la storia politica degli ultimi 30 anni del paese ed incrociando le nuove mobilitazioni per la giustizia climatica, l’ecotransfemminismo e l’ecologismo operaio, questa rubrica vuole provincializzare l’ecologia politica in Italia come esperienza di lotta emergente e trasformativa. Il desiderio di raccontare tutto ciò ad un pubblico più ampio di attivistə e studiosə ci ha spintə a rileggere, invitare e proporre una selezione di contributi rivendicativi, di riflessioni e di analisi per comporre una cartografia in evoluzione delle resistenze e delle lotte in Italia. Buona lettura del post introduttivo, in attesa dei contributi futuri!

Gela, Niscemi, Augusta, Taranto, Brindisi, Napoli, Caserta, Cagliari, Manfredonia, Rosignano, Casale Monferrato, Seveso, Porto Marghera, Brescia, Val Susa e Vajont, sono solo alcuni dei territori dove lo stato italiano, insieme all’industria inquinante (petrolchimico, acciaio, etc) e lo smaltimento dei suoi rifiuti  ha lasciato le tracce di uno sviluppo capitalistico intrinsecamente ecocida. Da questi territori sono nate resistenze ed esperienze di lotta che di volta in volta hanno acceso i riflettori sul nesso tra salute ed ambiente e sulla necessità di produrre alternative alla narrazione dominante che normalizza il danno arrecato alla salute umana e più che umana; che sia in fabbrica attraverso il ricatto tra salute e lavoro, nei quartieri periferici delle città dove non si respira a causa dell’incenerimento di rifiuti pericolosi o nelle valli dove la modernità è spesso sinonimo di grandi opere inutili e dannose se non disastri.

Ci sono due filoni di movimento e prospettive critiche che ancora oggi riecheggiano e vengono rimestati nella complessa geografia delle lotte territoriali e per la giustizia ambientale e climatica in Italia. Questi non sono antitetici o escludenti, ma ci permettono di delineare alcune delle peculiarità di questa storia. Da una parte c’è c’è l’ecologia operaia con la sua storia che parte dalle lotte dentro la fabbrica sul tema della salute ed dell’esposizione alle nocività, che ha stravolto i rapporti di potere per mettere al centro l’importanza dell’esperienza e della soggettivazione politica di chi vive sulla propria pelle il danno industriale, contro la logica degli indennizzi, per una politica di prevenzione. Dall’altra parte c’è la prospettiva meridiana alla devastazione ambientale, che funge da scheletro delle lotte contro progetti di sviluppo ecocida. Dagli anni 80, nei territori marginali della nazione come il meridione e le isole, la promessa di benessere che sarebbe emanato dalla modernità, ha cominciato lì prima che altrove, a mostrare il suo volto più cruento. Il progresso della nazione non convince proprio quei territori e comunità subalterni da sacrificare sull’altare del capitalismo. La prospettiva meridiana all’ecologia politica in Italia nasce in quei territori e tra quelle comunità che ai principi di sacrificabilità, addomesticabilità e ricattabilità e alla normalizzazione delle gestioni emergenziali contrappone la riappropriazione di forme collettive di lotta e di vita, producendo saperi critici ed orizzonti alternativi alla produzione di vite di scarto. Nella marginalità fiorisce la radicale potenza di sovversione, come ci insegna bell hooks. Ed è in questo contesto che, negli ultimi anni e in particolare a partire dal 2019, l’ecologia politica italiana incontra la giustizia climatica.

Il 2019 è importante perché rompe l’incanto neoliberale di una supposta affinità elettiva tra protezione ambientale e tasso di profitto. Infatti la controrivoluzione delle élites, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, ha portato con sé alcune fondamentali linee guida di politica ambientale. La strategia fu duplice: in un primo momento, in assenza di una prospettiva di sviluppo capace di trasformare il problema ecologico da fattore di crisi a opportunità di profitto, la risposta al protagonismo operaio del decennio precedente fu l’inversione di tendenza rispetto alla forbice sociale: se fino a quel punto la dinamica era andata verso il restringimento, di lì in poi la polarizzazione di classe avrebbe ricominciato a crescere. In un secondo momento, con l’ascesa del neoliberalismo e il crollo dell’Urss, la diseguaglianza continuò ad aumentare ma su di un mutato sfondo discorsivo. L’idea di sviluppo sostenibile indicò una possibile compatibilità tra crescita economica e cura dell’ambiente, mentre la green economy si spinse un passo più in là: la crisi ecologica non andava più considerata un ostacolo allo sviluppo, bensì una sua fondamentale condizione di possibilità.

In altri termini, la green economy è il tentativo di adattare il vincolo ambientale all’accumulazione di capitale trasformandolo da barriera a propulsore del valore. È una strategia che si basa sulla creazione di mercati ad hoc, come quelli in cui ci si può scambiare permessi e crediti di emissione. Ecco così che magicamente si può postulare un’affinità elettiva tra logica del profitto e logica della manutenzione ambientale. Con una certa preveggenza, già nel 1988 sulle pagine della rivista Primo Maggio, Sergio Bologna notava quanto il capitale avesse bisogno dell’ambientalismo per raggiungere la frontiera di una nuova rivoluzione industriale. Il rovesciamento è dunque servito: se mezzo secolo fa la prima ondata di nocività ambientali (in particolare rifiuti e inquinamento) divenne un fatto politico sulla spinta delle lotte sociali e operaie, a partire dagli anni Novanta si assiste invece alla gestione neoliberale non soltanto di quelle nocività, ma anche della seconda ondata di danni ecologici (rischi biotecnologici, geoingegneria e cambiamento climatico). È il modello che dal Protocollo di Kyoto (1997) arriva fino all’Accordo di Parigi (2015): benché il riscaldamento globale rappresenti un fallimento del mercato (che non ha saputo contabilizzare le cosiddette «esternalità negative»), l’unico modo per farvi fronte è l’istituzione di altri mercati su cui scambiare merci-natura (per esempio la capacità delle foreste di assorbire CO2). Non si tratta di incursioni nell’iperuranio dell’astratta teoresi: i meccanismi flessibili che mercificano il clima sono tuttora il principale strumento di politica economica utilizzato dalla Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici dell’Onu. Nonostante decenni di negoziati sul clima, negli ultimi trent’anni sono stati emessi più gas climalteranti di quanto non fosse accaduto dal XVIII secolo al 1990! Questo mostra con evidenza la contraddizione tra il (supposto) fine ecologico e gli (effettivi) mezzi economici dei mercati ambientali. Infatti, sebbene nessun miglioramento ecologico sia stato ottenuto grazie a qusti mercati – nemmeno i sostenitori più entusiasti rivendicano il contrario – un’enorme quantità di denaro è stata trasferita agli azionisti di imprese che, per ironia della sorte, spesso appartengono al settore dell’energia fossile.

Inoltre, nel marzo 2020, abbiamo avuto nuova prova del fallimento di questa logica. Se naturalmente non è stata la mala gestione dell’ambiente di per sé a generare il virus Covid-19, sappiamo per certo che la sua la diffusione è correlata alla deforestazione e distruzione degli ecosistemi che favoriscono il salto di specie (spillover) di agenti patogeni tra animali selvatici e animali addomesticati, attraverso i quali arrivano agli umani (zoonosi), mentre la velocità di trasmissione è connessa alla rapidità degli spostamenti di persone (naturalmente ricche) e merci, che hanno reso questa una pandemia di scala globale in poche settimane. Inoltre, il preesistente inquinamento atmosferico ha reso le persone più vulnerabili alle infezioni respiratorie, portando a crescere in poco tempo la curva dei contagi in un sistema sanitario già profondamente attanagliato da una sistemica carenza di personale medico e posti letto, nonché di dispositivi di protezione e respiratori polmonari.

La pandemia è stata in questo senso la prova inconfutabile di quanto questo sistema sia strutturalmente malato e di quanto la questione ecologica coinvolga trasversalmente tutti gli ambiti della nostra vita. La gestione manageriale e profit-oriented della natura si è rivelata la ricetta ideale per un disastro. Se il governo italiano sembrava voler ripartire con il piede giusto, avviando un programma di transizione ecologica attraverso i fondi del Recovery Fund, gli eventi che si sono susseguiti hanno invece mostrato chiaramente l’intenzione di fare della transizione ecologica una nuova occasione di accumulazione e valorizzazione del capitale privato, i cui costi – ancora una volta – sarebbero stati scaricati sulla natura e sulle fasce popolari.

La pandemia, da occasione per invertire la rotta, è divenuta invece fenomeno moltiplicatore dei processi di violenza esistenti, che si sono riverberati maggiormente sulle soggettività più vulnerabili evidenziando il profondo nesso tra crisi sanitaria ed ecologica. E difatti, mentre il governo proseguiva le interlocuzioni con le principali compagnie energetiche e belliche del paese, responsabili del degrado ecologico, della crisi climatica e delle politiche militari e coloniali perseguite a difesa degli asset strategici, le grandi aziende si preparavano – dopo aver ricevuto lauti aiuti pubblici senza alcuna condizione – a lasciare il paese e delocalizzare, in nome della transizione ecologica e della competitività di altri mercati rispetto a quello italiano.

Se già dal 2019 il modello di governo della crisi climatica basato sul mercato si andava sfaldando sotto la pressione di movimenti vecchi e nuovi, da quelli che animano le lotte sui territori a Fridays for Future e XR, le ultime mobilitazioni hanno conclamato che la ‘transizione ecologica dall’alto’ non è stata in grado di mantenere le proprie, altisonanti, promesse. Mentre emissioni climateranti, ondate di calore, siccità e incendi continuano a crescere incessantemente, si attaccano anche i diritti sociali, E difatti, il giorno successivo allo sblocco dei licenziamenti da parte del governo italiano, varie aziende (come GKN Driveline) si sono affrettate a fare i bagagli e andare via, portando con loro i profitti fatti sulle spalle di lavorator considerat – durante il lockdown – come essenziali, e lasciandosi dietro un deserto fatto di fabbricati vuoti e lavoratorə senza garanzie e diritti, costrettə ad affrontare uno dei peggiori momenti storici tra carovita, guerra e continui attacchi al mondo del lavoro e alle risicate misure sociali esistenti.

Questo concatenamento di processi è stato messo in luce e agito in modo sinergico da movimenti per la giustizia climatica e operai/e, la cui alleanza si è rivelata fondamentale per le conquiste degli anni ‘70 ma poi travolta dalla ristrutturazione capitalistica a trazione neoliberale. In particolare dal Collettivo di Fabbrica GKN (protagonista di numerose mobilitazioni a partire dal licenziamento collettivo del 9 luglio 2021), aprendo ad uno scenario radicale di convergenza ed insorgenza in grado di scalfire e decostruire la dicotomia ambiente-lavoro e costruire una conflittualità sociale in grado di rimettere al centro quel 99% che si richiamava a partire dalle strade di Wall Street durante il movimento Occupy.

Dal recupero della tradizione dell’ecologia operaia alla convergenza con Fridays for Future, dal rifiuto della guerra alla convergenza con gli Stati Genderali lgbtqia+ & Disability, il Collettivo di Fabbrica ha aperto un prezioso spazio di discussione nel mondo operaio e di mobilitazione collettiva con due fondamentali date, ovvero quella del 26 marzo 2022 a Firenze (subito dopo il Climate Strike di FFF del 25 marzo), in cui il movimento per la giustizia climatica è sceso in strada con lo slogan “Siamo natura che insorge”, e quella – tra pochi giorni – del 22 ottobre a Bologna che mette al centro il nesso tra mobilità pubblica e sostenibile, direzione verso la quale il Collettivo di Fabbrica si sta muovendo per avviare una riconversione industriale dell’impianto, grandi opere (come il passante di mezzo a Bologna) e reti per la sovranità alimentare, la cui importanza è ancor più evidente nel mezzo di una crisi dei prezzi e dell’approvvigionamento dei beni di prima necessità come il grano, e delle nefaste conseguenza di siccità e ondate di calore che hanno mandato in malora molti raccolti. Pochi giorni dopo, il 5 Novembre, il Sud che insorge riempirà le piazze di Napoli, in una mobilitazione congiunta tra il Collettivo di Fabbrica GKN, lo storico Movimento di Lotta Disoccupati “7 Novembre”, Fridays for Future Napoli e la rete Noi non paghiamo contro il carovita.

D’altra parte, le piazze globali degli scioperi climatici hanno posto, in modo nuovo, una questione politica non troppo diversa: dato il fallimento del mercato nel contenere le emissioni inquinanti, come ripensare la protezione ambientale non a scapito ma attraverso un’efficace lotta alle diseguaglianze? In questa congiunzione tra un tema tipico dell’intervento pubblico nell’economia (l’inclusione sociale delle classi lavoratrici) e l’esaurimento dell’assunto implicito dell’idea stessa di ‘piano’ (il produttivismo come espressione dell’‘infinità e gratuità’ della biosfera) sta l’originalità della giustizia climatica come orizzonte strategico di una pianificazione all’altezza della crisi ambientale, rispetto alla quale il progetto di riconversione industriale dal basso dell’impianto di semiassi per auto GKN rappresenta un primo e centrale laboratorio politico. Infatti, il Collettivo di Fabbrica, insieme ad una rete di accademicə solidalə, ha elaborato un piano di riconversione ecologica dello stabilimento proponendo la realizzazione di un Polo per la Mobilità Pubblica Sostenibile. Al centro di questo progetto di riconversione, non solo vi è un ripensamento del ruolo della classe operaia nella transizione ecologica, guidata dall’idea di subordinare la produzione a standard ambientali e climatici e all’utilità sociale di ciò che si produce, ma anche un profondo ragionamento sulla relazione tra sistemi di conoscenza differenti e sulla sinergia tra saperi operai e saperi accademici. Un punto che, come sappiamo, è centrale dell’ecologia politica per la sua capacità di ribaltare schemi di lettura e azione dominanti.

Assumere questa prospettiva significa immaginare una transizione segnata da condizionalità forti: per funzionare, essa deve presentarsi come ecologica, democratica, popolare, femminista, anticolonialista e antirazzista.

Il corteo partito dal Venice Climate Camp diretto alla Mostra Del Cinema di Venezia, 10 Settembre 2022. Credits: Michele Lapini Photography.

 

Ilenia Iengo è un’attivista transfemminista e dottoranda in Ecologia Politica Femminista nell’ambito del progetto Marie Sklodowska Curie WEGO-ITN, presso il Barcelona Laboratory for Urban Environmental Justice and Sustainability, ICTA-UAB. La sua ricerca-azione si incentra su terreni di coalizione tra transfemminismo e giustizia ambientale partendo dal territorio di Napoli, Sud Italia. Con il laboratorio Ecologie politiche del presente è cocuratrice e autrice del libro “Trame: pratiche e saperi per un’ecologia politica situata.”

Paola Imperatore è assegnista di ricerca presso l’Università degli Studi di Torino e si occupa di conflitti politici e movimenti sociali, in particolare relativi alla difesa dell’ambiente contro la costruzione di grandi infrastrutture o industrie nocive e inquinanti, e di ecologia politica. È un’attivista impegnata nella giustizia climatica e nei movimenti antimilitaristi.

Emanuele Leonardi è uno studioso ed attivista che lavora presso l’Università di Bologna. I suoi interessi di ricerca includono: giustizia climatica ed ecologia operaia. È membro del gruppo di ricerca POE – Politics, Ontologies, Ecology.

Top (feature) image: Sciopero per la giustizia climatica di Fridays for Future a Bologna, 27 Settembre 2019. Credits: Michele Lapini Source: https://www.facebook.com/michelelapiniphoto